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In Profondità

Maternità e tossicodipendenza

Maternità

Gli effetti dell’uso di sostanze psicoattive sulla gravidanza

Di seguito vengono elencati degli effetti la cui entità è molto legata alla dose (maggiore è la dose, maggiori gli effetti collaterali); tuttavia è opportuno ricordare come da un punto di vista comportamentale, l’assunzione di tali dosi non è necessariamente limitata ai tossicodipendenti veri e propri, ma può riguardare anche soggetti dediti più o meno saltuariamente a comportamenti d’abuso.

  1. Complicazioni ostetriche
    Le più importanti complicazioni ostetriche che si verificano nella gestante tossicomane sono attribuibili all’effetto delle sostanze d’abuso sull’utero gravido e/o sulla vascolarizzazione placentare.
    Fra le complicazioni acute, correlate soprattutto all’assunzione irregolare di dosi elevate, si registrano distacchi placentari, aborti e parti prematuri. In caso di assunzione cronica, il meccanismo ischemico è responsabile di sofferenza fetale e dismaturità (feti piccoli per età gestazionale), condizioni che espongono il neonato ad un accresciuto rischio di contrarre numerose patologie ostetriche e neonatali. Neonati di basso peso si riscontrano comunemente nella progenie di donne che abusano di oppiacei, di cocaina, di marijuana, di tabacco.
  2. Tetratogenesi
    In merito all’effetto diretto delle sostanze psicoattive sullo sviluppo dell’organismo, si possono descrivere schematicamente due categorie di fenomeni: l’evidenza di alterazione morfogenetica
     (alterazione della forma del corpo e dei suoi organi durante lo sviluppo embrionale) da un lato (tetratogenesi propriamente detta) e gli effetti neurali e comportamentali in assenza di alterazione anatomica dimostrabile (tetratogenesi neurocomportamentale) dall’altro.
    I meccanismi della tetratogenesi anatomica sono ancora scarsamente conosciuti; essi sarebbero collegati o con le interferenze che si verificano a carico della migrazione delle cellule embrionali o con turbe della vascolarizzazione degli abbozzi morfogenetici. Una chiara tetratogenesi morfologica è nota per l’alcol (sindrome fetale alcolica: difetto di accrescimento, microcefalia, dismorfie della faccia e degli arti, segni di irritabilità cerebrale con deficit di apprendimento), per la cocaina (malformazioni genito-urinarie ed esiti di alterazioni cerebrali ischemiche), per le anfetamine e l’LSD.
    Secondo recenti segnalazioni epidemiologiche, l’uso di marijuana in gravidanza si assocerebbe ad un’aumentata incidenza di leucemie acute infantili.
    La tetratogenesi neuro-comportamentale  è costituita dalla persistenza post-natale di alterazioni a carico di funzioni neuropsichiatriche essendo cessata l’esposizione alla sostanza psicoattiva.
  3. Problemi neonatali
    Si possono distinguere effetti da impregnazione e da sospensione. Le sostanze che deprimono il sistema nervoso centrale (come gli oppiacei, le benzodiazepine, i barbiturici) sono responsabili di difficoltà respiratorie al momento della nascita per meccanismi di accumulo, dalle quali possono conseguire danni neurologici molto gravi.
    Al contrario, la sindrome astinenziale del neonato si presenta come una sindrome di ipereccitabilità generalizzata dei sistemi neurali vegetativi e di relazione che dipende dalla brusca interruzione nell’assunzione di droga, introdotta nell’organismo fetale sino al momento della nascita attraverso gli scambi umorali con l’organismo materno. La sindrome viene trattata mediante somministrazione a scalare di agonisti della sostanza d’abuso (per esempio metadone o morfina nel caso degli oppiacei). Se il dosaggio assunto dalla madre nelle ultime fasi della gestazione non era particolarmente elevato e la terapia neonatali viene eseguita correttamente, la sindrome non lascia reliquari specifici.

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Le conseguenze dello stile di vita della gestante tossicodipendente

Da un punto di vista medico, la gestazione della donna tossicodipendente, viene considerata una gravidanza a rischio nel suo complesso.

  • Malattie infettive
    Sono di natura infettiva le più importanti patologie correlate allo stile di vita tossicomanico. Un primo gruppo è costituito dalle patologie infettive trasmissibili al feto durante la gestazione e/o al neonato nel momento del parto. Fra queste occorre ricordare le epatiti (soprattutto da HBV) e l’infezione da cytomegalovirus, in relazione all’uso di siringhe; le malattie sessualmente trasmesse, legate alla promiscuità dei costumi e/o ad un basso livello di cultura igienico-sanitaria, tra cui lue (malattia infettiva altrimenti detta sifilide), gonorrea, infezioni da chlamydiae e da herpes genitalis (HSV). L’infezione da HIV, trasmessa orizzontalmente con lo scambio di siringhe e con i rapporti sessuali, ha una probabilità di trasmissione verticale (madre-figlio) dell’ordine del 50%; il virus può infettare il feto in utero, contaminare il neonato durante il parto od essere trasmesso con l’allattamento. Questo gruppo di infezioni determina malattia nel feto, con effetti anche molto gravi, che giungono alle malformazioni e alla morte in utero.
    Il secondo gruppo di patologie infettive è prodotto dagli agenti che determinano uno scadimento delle condizioni materne con ripercussioni dirette o indirette sul benessere fetale. Sono da ricordare in proposito le infezioni da germi banali o funghi (soprattutto le endocarditi, ovvero infiammazioni delle cellule che rivestono le pareti interne del cuore), anch’esse legate alle pratiche iniettive senza precauzione igienica, e la tubercolosi, divenuta oggi frequente nei soggetti con immunodeficienza. Queste infezioni materne possono condurre a danni fetali di gravità variabile, sino alla morte in utero.
  • Altre malattie
    Fra le patologie non infettive, ancora su base eminentemente comportamentale, ricordiamo gli stati di cattiva nutrizione dovuti all’alimentazione incongrua, nonché le conseguenze della scarsa cura della persona in genere.

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I problemi assistenziali per una donna tossicodipendente in gravidanza

Le donne tossicodipendenti soffrono di una notevole alterazione dei vissuti della gravidanza: da ciò derivano spesso atteggiamenti noncuranti di perseverazione o, all’opposto, fantasie eroiche di cambiamento radicale circa la propria condizione tossicomanica; a volte la scoperta della gravidanza si associa addirittura ad un’incrementata assunzione di sostanze psicotrope, probabilmente in relazione alle angosce provocate dall’evento. La richiesta di intervento assistenziale da parte delle gestanti tossicodipendenti risente negativamente di tali dinamiche psicologiche: essa è sovente tardiva e, quindi, responsabile di un ulteriore e cospicuo aumento di rischio per la salute del neonato.
La gestione tossicologica della gravidanza è stata messa a punto secondo protocolli terapeutici che prevedono generalmente la sostituzione della droga di strada con la somministrazione regolare di metadone. Il mantenimento metadonico viene effettuato alla più bassa dose compatibile con la prevenzione delle recidive, che viene ricercata mediante scalaggio lento. Da un punto di vista ostetrico lo scalaggio viene effettuato di preferenza fra la 14esima e la 32esima settimana di gestazione, compatibilmente con le condizioni psicosociali della donna.
La completa disintossicazione della madre è ragionevolmente attuabile quando si disponga di un supporto ambientale adeguato, in assenza del quale è preferibile adire al mantenimento metadonico. Tale approccio consente di evitare lo stress fetale dovuto all’assunzione intermittente di droga in caso di recidiva e consente un contatto continuo della gestante con i servizi sanitari durante l’arco della gravidanza, sviluppando una maggiore disponibilità ad eseguire i controlli di routine.
L’intervento di assistenza alla gravidanza in corso di tossicodipendenza si confronta con uno spettro di bisogni e di problemi assai vasto, che richiedono competenze multidisciplinari. Schematicamente possiamo elencare le seguenti aree:

  • somatica: include l’ampia serie di problemi medici, ostetrici ed infettivologici;
  • psicologica: la psico(pato)logia della maternità si interseca con la presenza di eventuali disturbi mentali concomitanti;
  • relazionale: frequenti i casi di nucleo familiare acquisito disgregato o assente, nonché di partner tossicodipendente;
  • socio-economico: basso livello culturale, difficoltà occupazionali e ricorso alla prostituzione costituiscono problemi non eccezionali;
  • legale: oltre alle eventuali pendenze giudiziarie della madre connesse con attività illegali, può accadere che il destino del nascituro venga rimesso al tribunale dei minori per inadempienza, incapacità, vizio di mente, della madre come di entrambi i genitori.

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Se la mamma tossicodipendente fosse anche sieropositiva

L’AIDS conclamato, rappresenta solo una piccola percentuale dei casi di infezione da HIV; in altri termini, essi sono la punta visibile di un iceberg, la cui base sommersa, ben più ampia, è costituita da tutte le persone sieropositive per anticorpi anti-HIV e quindi infette e contagianti. Questa particolare distribuzione è imputabile al lungo periodo di latenza, valutato in media intorno ai 10 anni, che intercorre tra il momento reale dell’infezione e quello della comparsa della sintomatologia specifica. In Italia la legge prescrive che “Nessuno può essere sottoposto senza consenso ad analisi tendenti ad accertare l’infezione da HIV”. L’attuale impossibilità, oltre che per motivi legali, anche per problemi economici, organizzativi ed etici, ad eseguire un test popolazionistico per individuare tutte le persone infettate da HIV, rappresenta un limite nel valutare correttamente la diffusione dell’infezione e l’efficacia delle strategie sanitarie proposte per controllarla.
I modi con cui l’infezione da HIV può essere trasmessa:

  1. via sessuale nel corso di rapporti sessuali. Il virus è infatti presente nello sperma e nelle secrezioni vaginali dei soggetti contagiati;
  2. via parenterale, per somministrazione di sangue, emocomponenti o emoderivati infetti, ma anche per l’uso di aghi e siringhe contaminati;
  3. via verticale, dalla madre infetta al figlio. In questo caso l’infezione può essere trasmessa:
    • durante il periodo prenatale, presumibilmente per via transplacentare;
    • nel corso del parto, quando il neonato viene esposto al contatto con sangue e/o secrezioni cervico-vaginali contaminate dal virus;
    • nel periodo post-natale, tramite l’allattamento al seno (pochi casi accertati).

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Linee di intervento per una donna tossicodipendente in gravidanza

Per una soddisfacente gestione della gravidanza è necessario attivare un ampio ventaglio di supporti socio-sanitari, ma soprattutto è necessario incentivare l’uso dei supporti assistenziali stessi da parte delle pazienti sviluppando una compliance ai trattamenti.
Si è dimostrato infatti che, almeno nel caso della dipendenza da oppiacei, un buon livello di cura prenatale annulla quasi completamente le differenze di morbilità fra i gruppi di gestanti tossicodipendenti trattate con metadone e la popolazione generale, differenze che sono invece assai significative fra i gruppi non trattati e i controlli.
Per quanto riguarda l’intervento assistenziale a favore della gestante, possiamo indicare quindi i seguenti obiettivi principali:

  • protezione biologica del feto, che richiede interventi tossicologici specifici e provvedimenti generali;
  • sviluppo delle capacità materne, che necessita di un’attenzione specifica sin dalle prime fasi della gravidanza al fine di garantire la qualità della vita del bambino (sviluppo delle competenze psicologiche e capacità concrete nelle cure parentali);
  • interventi sulle patologie concomitanti, che richiedono competenze specialistiche multidisciplinari che possono essere erogate in regime ambulatoriale e di degenza;
  • supporto sociale, che costituisce un complemento indispensabile degli interventi di natura prettamente sanitaria.

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I bambini nati da madre HIV-positiva

Nell’adulto, la presenza di anticorpi anti-HIV indica la coesistenza del virus; nel neonato invece, la sieropositività non ha lo stesso significato in quanto può essere conseguente al passaggio transplacentare dei soli anticorpi materni, ma non del virus.
Gli anticorpi di origine materna, che dimostrano l’infezione nella madre, possono scomparire a partire dal quarto mese o persistere fino al quindicesimo-diciottesimo mese di vita. Quindi, i nati da madre sieropositiva per anti-HIV sono alla nascita sempre sieropositivi, ma non necessariamente infetti. Le modalità del parto, per via vaginale o parto cesareo, non sembrano influenzare il rischio di trasmissione.

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Il follow-up dei nati da madre positiva

Nei primi mesi di vita è difficile distinguere i bambini sieropositivi che hanno contratto l’infezione da quelli sieropositivi sani. E’pertanto indispensabile predisporre per tutti i nati da madre sieropositiva per anticorpi anti-HIV, dei programmi di follow-up che prevedano, oltre all’esecuzione delle varie indagini di laboratorio, una attenta valutazione clinica per cogliere tempestivamente possibili segni associati ad una infezione attiva da HIV. Per tale motivo è opportuno che il bambino “a rischio” venga seguito da una equipe polispecialistica formata da pediatri, infettivologi, neurologi, oculisti, chirurghi e altri, in grado di affrontare i molteplici problemi che un bambino HIV- positivo può presentare.
Lo scopo di tali programmi è quello di identificare il paziente infetto prima dell’insorgenza delle manifestazioni cliniche che, spesso, si possono cogliere solo in uno stadio avanzato della malattia. In mancanza di una cura, la scienza medica dispone di farmaci che sono in grado solo di rallentare il decorso della malattia e che risultano tanto più efficaci quanto più precoce è il loro impiego.

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Il decorso dell’infezione da HIV in età pediatrica

Il decorso in età pediatrica è più rapido che nell’adulto, soprattutto se il virus è stato trasmesso per via verticale. In alcuni bambini, asintomatici per lungo tempo, l’infezione si può manifestare, all’inizio, solo con alterazioni a carico del sistema immunitario; in altri invece, la sintomatologia clinica ha un esordio molto più precoce, entro il primo semestre di vita, e più grave. Sono frequenti in questa categoria le infezioni batteriche ricorrenti e le infezioni opportunistiche.
Ai gravosi impegni materiali, dovuti ai frequenti controlli clinici e ai ricoveri in ambiente ospedaliero, si aggiunge un profondo coinvolgimento psicologico: spesso la madre si sente responsabile della malattia del figlio e, oltre a seguire con estrema apprensione ogni possibile manifestazione patologica, a volte non imputabile all’HIV, vive con ansia l’inserimento sociale del bambino, temendo che egli possa andare incontro a discriminazioni ed emarginazione per il fatto di essere sieropositivo.



 
 
 
   
 
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